La Biennale d’arte che si è da poco aperta a Venezia ha scelto come tema l’utopia del Palazzo Enciclopedico. L’idea viene da un artista italo-americano, il visionario Marino Auriti, che negli anni Cinquanta aveva realmente immaginato una specie di ultramoderna torre di Babele, dove ospitare tutto il sapere dell’umanità.
Un’idea folle e al tempo stesso geniale: il palazzo avrebbe dovuto essere alto centinaia di metri, 136 piani, e sarebbe stato all’epoca l’edificio più alto al mondo. Avrebbe dovuto sorgere a Washington e, naturalmente, non fu mai realizzato.
Mi affascina molto pensare a questo progetto. Così come trovo davvero suggestivo che questa edizione della Biennale si ispiri a questa idea. Ma quello che più accende la mia immaginazione è il modo in cui il progetto di “enciclopedia” si è trasformato nella storia, a mano a mano che il mondo diventava tanto più piccolo quanto più smisurato.
Nel Settecento, per sintetizzare il sapere universale, erano “bastati” i 28 volumi dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert. A metà del Novecento, due secoli dopo, un artista visionario sperava di riuscire a contenere tutto lo scibile umano in una torre di 136 piani. E oggi?
Oggi abbiamo la rete. Un enorme, sconfinato volume privo di pareti. Liquido, costantemente in espansione, che accumula ogni giorno milioni e milioni di dati, informazioni, immagini, video, pensieri, ricordi, uscendo da qualunque possibile supporto fisico. Un Palazzo Enciclopedico virtuale e smaterializzato, capace, secondo qualcuno, perfino di pensare.
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