Le persone della mia generazione ricorderanno sicuramente le prime immagini dei punk che si riunivano a Piccadilly Circus. Era la seconda metà degli anni ’70 e gruppi di giovani inglesi davano vita a un’inedita subcultura di rottura e rifiuto totale, rappresentata da un genere musicale dichiaratamente grezzo e poco complesso (punk, appunto) e da uno stile molto riconoscibile: spille, creste, catene, pantaloni strappati.
A molti anni di distanza, il punk è entrato a pieno titolo nella storia della cultura e del costume, al punto che il Metropolitan Museum di New York ha da poco inaugurato Punk: Chaos to Couture, una mostra che – attraverso pezzi di firme come Vivienne Westwood, Alexander McQueen, Chanel e Moschino – indaga soprattutto l’impatto che questa subcultura ha avuto sullo stile e sull’alta moda.
Come mi è già capitato di dire, sono convinto che l’incontro tra arte, moda e stile sia inevitabile. È forse la prima volta che una mostra di questo genere viene dedicata al punk. E quello che più mi attira e incuriosisce di questa operazione – al di là dell’evidente paradosso (il punk in un museo?!) – è il ruolo che la moda ha avuto negli ultimi decenni: la sua capacità di cogliere nuove tendenze ovunque si presentino, di contaminarsi con i più disparati codici espressivi, ma soprattutto di raccontare i tempi, le loro contraddizioni, le loro ansie, trasformandole in stile e design.
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