L’identità e l’artista: Anida Yoeu Ali

27/10/2015

Arte Contemporanea



A novembre aprirà i battenti a Brisbane, in Australia, APT8: sarà un grande evento che raccoglierà il meglio dell’arte contemporanea del sud-est asiatico, e di quelle regioni del Pacifico così lontane, ma così vigorose e creative dal punto di vista artistico. Tra gli oltre ottanta artisti invitati, voglio raccontarvi la storia di Anida Yoeu Ali, e del suo buddhist bug project. Ma andiamo con ordine: oggi poco più che quarantenne, Anida è nata in Cambogia in un momento storico drammatico, quello in cui la dittatura Khmer sconvolgeva il Paese.

Nata in una famiglia della minoranza musulmana, al tempo duramente perseguitata dalla dittatura, Anida è cresciuta a Chicago, negli Stati Uniti. Si è trasferita ed è tornata a vivere patria solo nel 2011: e a Phnom Penh ha trovato l’ispirazione. Per costruire situazioni surreali, come quella che vedremo all’APT8, dove sarà proiettato un video che racconterà le ultime “avventure” del buddhist bug. Performer che da sempre indaga sull’identità, Anida da tempo vaga nel sud-est asiatico con un particolare costume arancione – il colore delle tuniche dei monaci – che la fa sembrare un enorme bruco arancione.

Con questo costume e insieme al “complice” fotografico Masahiro Sugano realizza scatti fotografici stranianti, nel mezzo di panorami che sembrano fermi da millenni, tra i sorrisi della gente che la circonda. Anida spiega la sua opera come un omaggio alle diaspore, ai rifugiati, a chi si trova costretto a vagare per sempre in una terra di mezzo dove la sua identità è annegata in mezzo a infinite altre: infatti il se il colore racconta il legame di Anida con il buddismo, il volto è in parte colato da un hijab, il velo della tradizione islamica. Il messaggio? La convivenza è possibile.