Ad Asti si è recentemente aperta una mostra il cui titolo già dice tutto: La rinascita. Storie dell’Italia che ce l’ha fatta. È un percorso che racconta gli anni ruggenti tra il ’45 e il ’70, anni durante i quali il nostro Paese, uscito in ginocchio dalla Seconda guerra mondiale, si è ripreso rapidamente, fino ad affermarsi come una delle principali potenze economiche del mondo.
Quello che è successo in quei due decenni in Italia è considerato da tutti un fenomeno esemplare di dinamismo e creatività, i cui simboli sono ben presenti nella nostra memoria condivisa. La Metropolitana di Milano, il Carosello, la Vespa, la Cinquecento: la mostra ricostruisce quei venticinque anni attraverso fotografie, opere d’arte e di design.
Celebrare oggi l’Italia di quegli anni non può che farci bene. Ci serve a ricordarci delle risorse e delle capacità che questo Paese ha saputo esprimere e che certamente possiede ancora, anche se sepolte sotto uno spesso strato di sfiducia, immobilismo e burocrazia.
Tra i tanti sentimenti, anche contrastanti, che l’Italia di quell’epoca può risvegliare nel visitatore della mostra, credo che uno in particolare debba però essere assolutamente censurato, ed è la nostalgia: sentimento impotente e autoassolutorio con il quale si rimpiange un passato che non può tornare. L’Italia di quei due decenni è stata resa grande anzitutto dalla sua insaziabile fame di futuro. Ed è dai morsi di quella stessa fame che dovremmo oggi imparare a ripartire.
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