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Il consenso emozionale alla prova dei fatti

A livello politico mondiale l’ultimo decennio ha visto ancora più rispetto al passato affermarsi leader capaci di colpire l’elettorato su un lato puramente emozionale del consenso. Gli elettori spesso si sono fatti guidare più dall’istinto che dalla razionalità: pensate alla primissima elezione di Barack Obama del 2008, dove ai contenuti del programma si affiancava una efficacissima campagna puramente emozionale, piena di “hope”, di speranza. Un’intuizione che probabilmente gli è valsa la Presidenza.

Naturalmente non si tratta di un fenomeno solo statunitense, ma globale. Il linguaggio semplice, l’apparire familiari – “lontani dal Palazzo”, diremmo in Italia – sono caratteristiche di moltissimi leader globali saliti al potere negli ultimi tempi. Però… però la politica emozionale può essere un’arma a doppio taglio: perché può essere usata sia dal politico che vuole vincere le elezioni – utilizzarla bene è una scorciatoia per la vittoria, puntando dritti al cuore dell’elettorato – sia da chi vuole mandarlo a casa. E anche in questo caso l’esempio di Barack Obama è perfetto: da Commander in Chief al secondo mandato può vantare un ruolino di marcia più che positivo, basti ricordare l’epocale riforma sanitaria Obamacare e l’uscita della crisi cominciata nel lontano 2007, o la chiusura dei conti con l’undici settembre e Osama Bin Laden.

Eppure secondo un sondaggio Gallup divulgato nei mesi scorsi per gli americani è il peggior inquilino di sempre della Casa Bianca. Malgrado progetti e realizzazioni portate a termine, sembra che i fatti contino meno delle parole: i suoi avversari sono riusciti a emozionare l’elettorato più dei suoi successi.

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