L’arte come terapia: Alain De Botton al Rijksmuseum

08/07/2014

Arte Contemporanea



In fondo è una domanda legittima: a cosa serve l’arte? Di certo questa domanda se l’è posta Alain De Botton, vulcanico filosofo un po’ svizzero e un po’ britannico, che ha sentenziato: Art is Therapy. L’arte è terapia, il titolo di un libro prima – Art as Therapy – e poi di una mostra un po’ particolare che proseguirà fino a settembre al Rijksmuseum di Amsterdam. Cosa ha di speciale quest’esposizione?

Semplice: non c’è niente di nuovo in mostra al museo. Fatta eccezione per dei giganteschi post-it gialli apposti a fianco delle opere, e per tanti oggetti comuni disseminati per la struttura: nello shop, al bar e persino nei bagni. I post-it – compilati da Alain de Botton e John Armstrong – sono didascalie delle opere surreali, spontanee, a volte divertenti, a volte ficcanti, a volte disarmanti, e tentano di dare al grande pubblico un twist nuovo per guardare all’arte e al mondo dei grandi contenitori museali come quello olandese.

Vi faccio un esempio: a fianco di una statua buddista del 14° secolo, Alain ha messo un foglio con scritto semplicemente: “Voglio la mamma. Anche se ho quarantaquattro anni e mezzo”. O ancora: “Odio i luoghi pieni di gente. Vorrei stare da solo.”, a fianco della solitamente affollatissima (di pubblico) Ronda di Notte di Rembrandt. Curioso no? Se vi sentite attratti da un’idea particolare come questa, non siete i soli: nel Regno Unito De Botton è molto amato, ma altrettanto criticato. Se il Financial Times gli ha di recente dedicato un lungo ritratto divertito e positivo, il Guardian lo ha stroncato senza appello proprio per Art is Therapy.

Teniamolo d’occhio. Alain de Botton con questa operazione ha portato un po’ di novità in un mondo solitamente piuttosto formale: quello delle grandi istituzioni museali europee. Ma lo ha fatto con garbo, riuscendo ad avvicinare il grande pubblico all’arte con un linguaggio semplice e diretto, ma non banale.